venerdì 25 ottobre 2013

Caccia al ladro (con sorpresa)




“Ma fra tante persone proprio lui dovevi scegliere?”. Anche se il giornale non lo dice, è sicuro che questa storia finisce con una ragazza che sgrida il fidanzato.

Siamo in una mattinata di fine estate del 1950. Un anziano contadino di Ottava si reca di malavoglia a Sassari per fare delle commissioni, giusto per acquistare delle botti di seconda mano e fare un saluto alla sorella. Sono le 11 e sulla città si abbatte improvvisamente un violento acquazzone. A metà del Corso l’uomo si ripara dentro il grande portone di fronte a Palazzo Civico. Pochi attimi dopo lo raggiunge un ragazzetto trafelato che ha avuto la stessa idea. I due aspettano inutilmente che il temporale allenti la pressione. Il giovane è impaziente, saluta, si sbatte contro l’anziano e si infila dentro la muraglia d’acqua. Dopo quell’inopportuno contatto fisico l’uomo istintivamente mette la mano dentro la giacca di velluto alla ricerca del portafoglio. La tasca interna è vuota, c’erano ventimila lire.

L’anziano si lancia all’inseguimento. Vede il ragazzo sgusciare in via Rosello, in strada non c’è nessun altro, sono tutti appiattiti contro i portoni a schivare i goccioloni. L’uomo è fradicio e anche se è abituato a faticare nei campi non riesce a tenere il passo del ladro. Lo perde. Per venti minuti vaga tra i vicoli di San Donato gettando l’occhio dentro ogni portone, poi si arrende e decide di andare in Questura a denunciare il furto. 

Risale in via Mercato e all’altezza del Circolo combattenti sente delle voci provenire da una porta. Dentro ci sono un ragazzo e una ragazza guancia contro guancia che rigirano nelle mani un oggetto, sembra proprio un portafoglio. Distingue solo le ombre fino a quando nel chiarore riconosce i lineamenti del borseggiatore. Il giovane si vede scoperto, con uno scatto lo strattona nuovamente e scappa. Il vecchio rimane fermo inebetito perché dalla penombra è apparso anche il volto della ragazza. Lei apre la bocca sbigottita e pronuncia uno stupefatto “Zio Cosimo!”. 

Quando scopre di essere stato derubato dalla figlia della sorella, un contadino di poche parole può fare un'unica cosa: stamparle sulla faccia un sonoro ceffone. Poi un secondo e probabilmente un terzo, tanto da attirare l’attenzione dei passanti divertiti riemersi in strada dopo la pioggia. Zio Cosimo prende sottobraccio la nipote e la porta a casa dei genitori per la ramanzina di rito. Il ladro si è dato alla macchia ma il finale della storia lo possiamo immaginare.

venerdì 18 ottobre 2013

Nozze tristi in piazza Fiume

Se nelle ultime settimane non avete frequentato il blog consiglio la lettura della prima e della seconda puntata di questa storia. Altrimenti ecco dove eravamo rimasti: siamo nel 1906, a pochi passi da Palazzo Ducale, dove sta per unirsi in matrimonio con Antonica Sanna, il giovane Vincenzo Ruiu viene pugnalato alla schiena dalla ex fidanzata. Nonostante sia in pericolo di vita, l'uomo decide di sposarsi lo stesso nell'ospedale di piazza Fiume.



Lauretta Delogu entra a San Sebastiano sfinita dalle emozioni delle ultime trentasei ore. Nello stesso momento in piazza Fiume, a pochi passi, arriva un piccolo corteo ben diverso da quello che la mattina era partito da via Sant’Eligio. Antonica Sanna, i testimoni di nozze, i familiari stretti e l’ufficiale di stato civile entrano all’ospedale per celebrare delle nozze tristi. Vincenzo Ruiu è steso supino e pallido nel terzo letto a destra in una sala della clinica chirurgica. Ha gli occhi chiusi e alterna gemiti a lunghi silenzi. I medici non si sbilanciano: è gravissimo ma se non sopraggiunge la peritonite forse ce la farà.

Il funzionario municipale celebra il matrimonio circondato da persone che piangono e sospirano. Le corsie del Santissima Annunziata appaiono ancora più cupe e buie. Vincenzo e Antonica diventano marito e moglie, il piccolino che sta per nascere quantomeno non sarà figlio di NN. I sassaresi seguono con apprensione gli sviluppi: la voce dell’agguato in via Canopolo si è sparsa in un attimo provocando una profonda emozione. In tanti si recano in piazza Fiume per vedere il ferito, i medici preferiscono vietare qualsiasi visita. In diversi commentano: ma perché la legge in questi casi non consente ai maschi di avere due mogli? Quanto dolore verrebbe risparmiato.

Il giorno dopo Ruiu vorrebbe ricevere la consorte, e si pronuncia con una smorfia quando scopre che Antonica non si è presentata. L’uomo si aggrava, al suo capezzale arrivano i professori Simula e Roth che intendono fargli una laparatomia ed esplorare la cavità addominale devastata dal coltello. Ruiu non vuole farsi ulteriormente operare. Tutti lo considerano spacciato, più volte viene dato per certo il suo decesso. Ma l’agonia continua. 

Antonica torna a trovarlo, insiste sulla necessità che vada sotto i ferri e gli propone di celebrare anche il matrimonio religioso, il prete è pronto a indossare i paramenti. Le sue suppliche si sbattono contro due “no” decisi. Purtroppo Ruiu non viene risparmiato dalla peritonite, ora il dolore è ancora più acuto e insopportabile. L’uomo viene scosso da terribili frustate nervose.

Ci vogliono quasi due settimane perché smetta di soffrire. L’autopsia viene eseguita dal dottor Romolo Repetto, davanti al giudice istruttore Dussol e all’uditore giudiziario Vincenzo Chessa. Il pugnale ha reciso l’intestino cieco, anche il chirurgo avrebbe potuto fare poco. Il medico legale scopre che l’uomo aveva anche un altro male, forse il suo destino era comunque segnato. Ma questo Lauretta non poteva saperlo. (3 - fine).

venerdì 11 ottobre 2013

Via Canopolo, Lauretta e il pugnale


(Per chi non lo ha ancora fatto, prima di andare avanti suggerisco di leggere la prima puntata di questa storia. Altrimenti ecco il riassunto: in via Canopolo, sotto Palazzo Ducale, il 2 febbraio del 1906 una donna irrompe su un corteo nuziale per pugnalare alle spalle il giovane Vincenzo Ruiu che sta per sposarsi).


Anche se è stata scattata 15 anni dopo la nostra storia,
ne approfitto per pubblicare la foto del matrimonio
dei miei bisnonni Solinas in piazza del Comune

Mentre Vincenzo Ruiu giace tra la vita e la morte sul tavolo operatorio dell’ospedale civile, la donna col pugnale fornisce piena e consapevole confessione. Come una sonnambula che si risveglia spaesata, come una fresca vedova che realizza di essere la causa del vestito a lutto. Forse a placare la sua furia è stato il passaggio come in tranche aggrappata alle guardie tra due ali di folla: quegli sguardi sbalorditi e carichi d’odio l’hanno restituita alla realtà. 

Con la polizia rivive gli ultimi due anni della sua vita. Si chiama Lauretta Delogu, ha vent’anni e abita in via Guascone Capra, uno dei pettini di Sant’Apollinare verso corso Vico. Racconta una storia vecchia come il mondo: “Vincenzo Ruiu mi fece sua fin dal Natale del 1904. Mi ha tenuto con sé con promesse continue, sfogando su di me tutte le sue brame”. Lauretta parla e piange. “Poi, quando si è stancato, mi ha mandato via come un cane rognoso”. Il rapporto, vissuto tutto nell’ombra, finisce a metà gennaio quando Ruiu le confessa, supportato dalla madre, di essersi infilato in un brutto pasticcio con un’altra donna: “La sposerò per finta, Lauretta tu rimani il mio unico vero amore”.

La situazione precipita il primo febbraio, quando la giovane amante abbandonata scopre che il giorno dopo il suo Vincenzo si sposerà per davvero. Lauretta chiama un’amica e in preda a una vampata incontenibile di rabbia pianifica la vendetta. Prende un coltello da cucina, con un mattone e una pietra pomice lo arrota trasformandolo in uno stiletto micidiale. Prova a immaginare il percorso del corteo nuziale e va a nascondersi nell’ingresso di un palazzo di via Canopolo, a un passo dalla meta, che assaporino il gusto della festa prima di piangere. Tutto va come previsto: mentre estrae il pugnale dalla schiena dell’amato, Lauretta vede la rivale crollare a terra svenuta per lo choc. Lei e il suo pancione. 

Una sola cosa, fondamentale, va storta. Al termine dell’operazione Ruiu versa in condizioni disperate, eppure chiede con un filo di voce che le nozze vengano celebrate lo stesso: questo matrimonio s’ha da fare. (2 - continua qui)

venerdì 4 ottobre 2013

Amore e sangue in via Canopolo





Questa storia mi emoziona perché si è svolta sotto la finestra della Sala stampa di Palazzo Ducale dove ho lavorato per più di un lustro. All’epoca dei fatti, più di cento anni fa, era la stanza dove Enrico Costa teneva il suo archivio delle meraviglie; prima ancora la cappella per le preghiere del Duca. Ancora oggi, che occupo un ufficio meno carico di storia, torno in questa sala tonda, mi affaccio, penso a una festa di nozze e a una persona pallida nascosta nel buio. A prestare bene l’orecchio si può sentire ancora il battito ansimante del suo cuore.

È la mattina del 2 febbraio del 1906. In via Sant’Eligio, nel nuovo quartiere delle Conce, si forma una piccola folla gioiosa. Da una delle casupole basse esce sorridente un donna vestita a festa e con una rotondità inequivocabile. Si chiama Antonica Sanna e sta incontrando il promesso sposo Vincenzo Ruiu: è il giorno delle loro nozze. Senza troppe cerimonie invitano parenti e amici e ad accompagnarli lungo la strada polverosa di Sant’Agostino verso Porta Nuova, destinazione Palazzo Ducale dove sarà celebrato il matrimonio. Lungo il percorso bambini e giovani festeggiano la coppia, qualcuno lancia battute maliziose, l’atmosfera è allegra. 

Attraversano via Arcivescovado, via Turritana, poi imboccano via Canopolo. Quando stanno per affacciarsi in piazza del Comune accade l’inimmaginabile. Dietro il portone di via Canopolo 26 è nascosta una donna: è spettinata ha gli occhi spiritati e impugna un coltello appuntito. Si lancia sul corteo, supera gli invitati, raggiunge con un salto le spalle di Ruiu e urlando lo pugnala alla schiena. Tutti gridano mentre il giovane si accascia in un lago di sangue senza neanche capire cos’è successo. La donna col pugnale scappa verso via Turritana inseguita dal fratello della sposa, il carrettiere Giuseppe Sanna, che fino a un attimo prima teneva per mano il figlio e che ha avuto la migliore prontezza di riflessi: la donna lo minaccia - “allontanati se no uccido anche te” - ma poi butta il coltello. Allora viene agguantata da Sanna che per la rabbia le mette le mani intorno al collo mentre lei si dibatte come un’indemoniata. Le guardie municipali Meliu e Madau, richiamate dalle voci, lo bloccano prima che la strozzi. 

Le condizioni di Vincenzo Ruiu sono gravi. Un medico tenta il primo soccorso in via Canopolo ma subito ordina che il poveraccio venga portato dentro Palazzo Ducale. L’assalitrice subisce lo stesso destino, ma in stato di arresto. Per un attimo si ritrovano entrambi sotto lo stesso tetto: poi il giovane viene caricato su un carro e portato velocemente all’ospedale civile di piazza Fiume; lei invece viene presa in custodia dalla Polizia e portata al commissariato. Ora bisogna capire chi è, perché ha pugnalato un uomo il giorno delle sue nozze. E soprattutto se Vincenzo Ruiu ce la farà a sopravvivere. (1 - continua qui)



domenica 22 settembre 2013

Il sassarese che cantava per Evita

Ascoltando papa Francesco ricordare lo speciale legame che unisce la Sardegna all'Argentina, mi è tornato alla mente un personaggio che ho conosciuto nel 1999 e che ora non c'è più. Si chiamava Antonio Pirisi ed era ospite di Casa Serena. Lo intervistai dopo aver letto la sua storia sulla rivista dell'istituto di via Pasubio curata dall'infaticabile Adele Loriga: Pirisi non solo sosteneva di aver conosciuto Juan Peron, ma anche che il presidente gli avesse rivelato le sue origini sarde. Vi ripropongo il pezzo che pubblicai sul Quotidiano di Sassari: sull'argomento si è scritto tanto in questi anni - il punto più alto a mio parere è il bel libro di Giovanni Maria Bellu "L'uomo che volle essere Peron" - ma la testimonianza di Pirisi rimane godibile e preziosa per lo sguardo che getta sulla vita degli emigrati in Argentina. Quella evocata oggi da papa Bergoglio sul colle di Bonaria.

Antonio Pirisi a Casa Serena

“Conosci Aggius?”. “Sì, Presidente!”. Questa è la storia di due sardi, un muratore e un personaggio storico, che si sono riconosciuti a vista.
Tutto è iniziato a Brindisi alla fine del 1948. Il giovane Antonio Pirisi aveva appena terminato di partecipare alla ricostruzione dell’aeroporto cittadino distrutto durante la guerra. L’Italia si stava ancora leccando le ferite causate dalla fine del secondo conflitto mondiale, e proprio in quell’anno, grazie alla guida di De Gasperi e ancor di più al Piano Marshall, aveva iniziato la lenta rinascita. Ma il paese era ancora posseduto dalla crisi economica, e ad Antonio, come a tanti altri, non restò che emigrare.
“Feci la domanda per poter entrare in varie nazioni del pianeta: Canada, Argentina, Australia, Francia, Germania. L’Argentina accolse la mia richiesta nel 1949”. Antonio fu chiamato a Napoli per sottoporsi ai controlli e alle analisi dei medici della sua nuova patria. “Superai l’esame, e fu vera gioia perché ero stato prescelto in una nuova terra. Provai anche tristezza e un po’ di amarezza, perché lasciavo la mia patria e la mia famiglia. Con la convinzione, però, che un giorno sarei tornato in Sardegna”.

Juan Peron (da Wikipedia)

Insieme ad altri compagni iniziò la nuova avventura imbarcandosi su una nave statunitense in stile liberty, che ormai veniva utilizzata solo per il trasporto degli emigrati. Il suo nome, “Santa Fè”, era l’emblema della sua nuova missione nei mari. La prima terra che Antonio vide dopo le settimane passate in oceano fu l’isola di Las Palmas. “Era l’8 settembre, e si festeggiava Maria Vergine. Per noi giovani sembrava aprirsi un nuovo orizzonte”.
Il 12 ottobre, giunse infine a Buenos Aires. Nella grande città, dopo tre giorni passati a riposarsi, fu assunto da una impresa edile che aveva in appalto la costruzione di una villa di un farmacista franco-inglese, nel quartiere “De Olivos”. Questa era una delle zone privilegiate della capitale, che pian piano era diventata un coacervo di razze ed etnie diverse. La villa del farmacista si trovava proprio di fronte alla Quinta residenziale, l’abitazione del Presidente della Nazione.

Tra mattoni e cemento Antonio, che aveva un passato di cantante, ingannava il tempo intonando a piena voce le canzoni italiane, per combattere la nostalgia.
Gli inquilini della casa presidenziale in quel periodo erano i coniugi Peron, Juan ed Evita. I due amavano fare delle passeggiate in bicicletta, passando spesso di fronte al cantiere.
“Un giorno mi sentirono cantare. Arrivati di fronte alla villa si fermarono, e mi chiamarono. Il Presidente mi chiese chi fossi e da dove venissi. Gli risposi di essere sardo, italiano. Peron allora domandò: “Conosci il paese che si chiama Aggius?”. “Conosco Aggius, dissi con emozione”. Il colonnello gli rivelò allora di avere avuto un nonno di quel paese, che di cognome faceva Perrone. “Per me era come ritrovare una persona amica con le origini comuni. Il Presidente mi parlò dell’Italia e del suo essere orgoglioso di avere radici sarde, che gli trasmettevano antichi valori, forza e tenacia”. Da quel giorno, Juan ed Evita si fermarono spesso di fronte al cantiere, chiedendo ad Antonio di cantare le canzoni italiane. “La signora Peron aveva i capelli biondi, era elegante nel portamento e molto affabile. Il suo ricordo mi affascina ancora oggi e quando sento le canzoni scritte per lei, i film, i libri che raccontano la sua storia, mi sembra quasi impossibile che io, piccolo sardo, possa aver allietato con la mia voce le sue passeggiate”.

Papa Francesco a Bonaria


domenica 8 settembre 2013

Fuga dall'Asinara




Nel giorno in cui La Nuova Sardegna descrive la fuga dei cinghiali dall'Asinara verso l'Isola Piana, ecco il racconto di un tentativo di evasione dalla Cayenna sarda avvenuto giusto settant'anni fa, dopo l'8 settembre. Protagonista un soldato che immagino affascinante e spregiudicato, Giovanni Sepich partigiano slavo recluso nella colonia penale. 
Secondo il sostituto procuratore del Re che ha rappresentato l’accusa nel processo, Sepich fu la mente della rivolta che rischiò di trasformare l’isoletta in un serbatoio di facinorosi pronti a sbarcare nella Sardegna settentrionale. 

Il 26 settembre diciotto reclusi per reati comuni, tutti armati di coltello, aggrediscono gli agenti di custodia, si impossessano delle loro chiavi e li rinchiudono nelle celle. Alcuni ribelli picchiano selvaggiamente le guardie e minacciano gli altri detenuti: seguiteci e abbandoniamo tutti insieme la prigione. 

Secondo il racconto fatto successivamente, nelle ultime settimane il clima era diventato insostenibile: i reclusi lamentavano un trattamento inumano, mangiavano poco e male e sostenevano di venire ripetutamente percossi dagli agenti di custodia. Neanche gli animali vivono in quelle condizioni, dissero. Si era poi sparsa la voce che nel marasma seguito all’armistizio, tutti i prigionieri sarebbero stati liberati per partecipare alla nuova fase della guerra. Sepich fremeva più degli altri: ripeteva di essere in possesso di gravi segreti militari da comunicare al maresciallo Tito. Nessuno lo aveva voluto ascoltare. Le presunte ingiustizie e le prepotenze subite fecero da detonatore.


I rivoltosi non fanno bene i conti e lasciano libera qualche guardia di troppo. Ci vuole poco perché da tutta l’isola arrivino uomini armati. I secondini iniziano a suonare il moschetto: Sepich e gli altri si arrendono in fretta, la speranza è più debole di qualche fucilata verso il cielo. I corpi sfiancati dalla fame non vogliono ingaggiare una battaglia senza prospettive.  I detenuti lasciano le armi e tornano in cella. 

Il processo per i fatti dell’Asinara si celebra a Sassari pochi mesi dopo: lo slavo e gli altri capi della rivolta vengono condannati per evasione aggravata e lesioni personali aggravate continuate. Sepich si becca anche la pena per aver tentato di impossessarsi di una carabina degli agenti di custodia. In tutto sono altri 7 anni e 7 mesi e una multa di 4mila lire. Quando potrà liberare i suoi segreti sarà troppo tardi.




domenica 11 agosto 2013

La Faradda di Mangiafuoco

Dalla rivista del Comune "Sassari"


Piccoli aneddoti sui Candelieri dalla Nuova Sardegna, per augurare buon ferragosto e darci appuntamento a settembre.

Premi/1. Negli anni Settanta la Faradda era anche una piccola gara. Al termine della Discesa venivano assegnati tre premi da 150, 100 e 50mila lire. I giurati dovevano tenere conto della ricchezza degli addobbi dei ceri, della danza del candeliere, dell'abbigliamento dei portatori e della puntualità. 

Record. A proposito di puntualità, nel 1970 ci si lamentò che la Discesa era durata quattro ore, invece delle solite tre. Nel 2012 il primo candeliere è partito alle 18 e l'ultimo è arrivato in piazza Santa Maria dopo la mezzanotte. Fate voi il conto.

Premi/2. Nel 1988, durante la cerimonia per il Candeliere d'Oro, il sindaco Marco Fumi consegnò a Mario Usai una targa come portatore con maggiore anzianità. La scelta provocò le vivaci rimostranze di un altro portatore, che nel cortile di Palazzo Ducale quasi aggredì il premiato sostenendo di essere lui il portatore più anziano. L'uomo fu allontanato dal servizio d'ordine. A Sassari tutti lo conoscevano per il suo soprannome: Mangiafuoco.

Premi/3. Nel 1995 Angelino Manai, storico gremiante dei Massai, festeggiò la sua settantacinquesima Faradda. Di lui nel 1970, la Nuova Sardegna aveva scritto: "E' un po' il simbolo della festa dei Candelieri: simbolo dell'attaccamento alla tradizione, simbolo dello spirito sassarese e simbolo anche di democrazia, una democrazia ante litteram che da qualche secolo consente all'obriere dei Massai di trattare alla pari col primo cittadino, in quel tradizionale incontro a Palazzo di città".


Il Sindaco Guarino e Angelino Manai (da una bacheca di Palazzo Civico)


Morta e dormiente. Nella sceneggiatura della Faradda, alla Madonna è dedicato un ruolo "orizzontale": morta fino alla proclamazione del dogma dell'Assunzione (1950), e successivamente dormiente. Nonostante il cambio di status, negli anni Settanta venne riesumato il rito antichissimo dell'Apostolato: dodici confratelli dei Misteri, dopo una sosta in porta Sant'Antonio in attesa del primo candeliere, andavano in silenzio verso la chiesa e si disponevano intorno alla Madonna a ricordo dei dodici apostoli intorno a Maria al momento del trapasso.

Guerriglia. Nel 1994 il sindaco Giacomo Spissu giustificò così la scelta di dare delle regole alla sfilata dei minicandelieri, che all'epoca anticipavano disordinatamente la discesa dei ceri grandi: "Sbucavano come tupamaros dai vicoli, dovevamo regolamentare!".

Capra e cane. Nel 1983 lo storico tamburino Salvatore Cappai svelò il segreto del suo suono inimitabile: "La pelle del tamburo deve essere conciata a dovere ed essere esclusivamente di capra". E dopo aver descritto la delicata procedura di preparazione, aggiunse un aneddoto sul perché la pelle di cane non è invece adatta: "Una volta la utilizzai ma mentre mi recavo a San Camillo per partecipare a una festa richiamai l'attenzione di due cani: avevo appoggiato lo strumento sotto un fico, gli animali si avvicinarono e, alzata la gamba, giù un'innaffiata coi fiocchi. Pensai a una coincidenza, ma alla seconda tappa i cani erano già tre…".


domenica 4 agosto 2013

Otto piccoli Ulisse sardi

Il Candeliere d'Oro


Il 13 agosto Sassari celebrerà il cinquantesimo anniversario del Candeliere d'Oro, manifestazione inventata per festeggiare gli emigrati che tornano in città per la Faradda (Segnalo la bella iniziativa del Comune per coinvolgere chi è rimasto all'estero). A loro, e ai numerosi lettori del blog sparsi nel mondo, è dedicato questo racconto. 

Tra il 1943 e il 1945 molti sassaresi sono in apprensione per la sorte dei parenti oltre Tirreno. L’isolamento aumenta l’angoscia e l’unico filo che lega la Sardegna all’Italia scorre invisibile nell’aria. Radio Roma e Radio Vaticana portano le voci di chi sopravvive nella capitale, città aperta. Ogni giorno le radio snocciolano lunghi elenchi di nomi e cognomi con le località di provenienza, messaggio nella bottiglia dall’identico contenuto: noi siamo vivi, tranquilli. Il servizio di corrispondenza copre solo alcune province del Sud liberato, non è possibile scrivere a chi risiede nell’Italia occupata dai nazisti. Per prendere la nave ci vuole uno speciale lasciapassare.

Se le campagne sono attraversate dai disertori continentali immobilizzati nell’isola, ce ne sono altrettanti sardi sospesi in Continente. Molti soldati riusciranno a tornare a Sassari solo a guerra abbondantemente finita, sporchi, irriconoscibili, incapaci di reinserirsi nelle dinamiche di famiglie che idealmente li avevano già seppelliti. A determinare i loro destini sono le scelte compiute subito dopo l’armistizio. Per tutti è l’inizio di un’imprevedibile sequenza di eventi. L’importante è dribblare i tedeschi che non hanno digerito il cambio di alleanze e ricorrono facilmente ai plotoni d’esecuzione. L’unica regola è, quindi, improvvisare. 

Improvvisano tre ragazzi del Battaglione Avieri (Antonio Masia, Antonio Frau e Giuseppe Cocco) che il 16 settembre decidono di tornare in Sardegna. Si trovano a Frosinone e hanno un piano semplice semplice, l’unico possibile: rientrare in Sardegna attraverso la Corsica, guado percorribile per chi ha a disposizione solo le proprie braccia. I tre rimangono per alcuni giorni alla macchia, aiutati dalla popolazione locale. Poi vanno due giorni a Roma, dove convincono altri due conterranei a tentare l’avventura, Francesco Serra e Giuseppe Murgia. Ora sono in cinque. 

Raggiungono Civitavecchia occupata dai nazisti e qui il gioco si fa più rischioso. Il gruppo è inebriato dal profumo del mare: oltre l’orizzonte c’è la terra promessa. Una motivazione sufficiente per superare le ultime pause e imbarcare nell’impresa disperata altre tre disgraziati: Andrea Manca, Francesco Abis e Leonardo Sotgiu. Tra mille peripezie e attacchi d’ansia, gli otto piccoli Ulisse sardi risalgono la costa fino alla spiaggia di San Vincenzo, tra Piombino e Livorno. Rubano una barchetta e iniziano la traversata verso l’isola francese. A forza di remate.

Ci vogliono sedici lunghe ore per tagliare il Tirreno. Quando i nostri, consumati dalla stanchezza, intravedono la costa hanno un sussulto. La piccola barca sta per incrociare un convoglio tedesco. Una nave di scorta inizia a sparare contro di loro, sembra finita. Ma, come si dice, arrivano i nostri. Nel cielo sfreccia una formazione americana che attacca le navi tedesche. I sardi ne approfittano per scansare la cattura e andare verso Bastia, con tutto lo scafo sforacchiato. Sbarcano nel porto che le braccia sono blocchi di marmo senza più sensibilità. Il tempo di alzare la testa ed ecco la delusione più grande: il porto è in mano ai nazisti, non c’è possibilità di fuga, è stato tutto inutile. Imprigionati, vengono costretti a lavorare nelle banchine. Tanta fatica per finire schiavi dei nemici. Passano alcune settimane e la città viene bombardata. In mezzo a quell’inferno di fumo e sangue, i sardi colgono l’occasione al volo per dileguarsi e iniziare un lento avvicinamento verso Bonifacio. Si uniscono ad altri italiani e alla fine riescono ad attraversare le Bocche. La stampa locale li tratta da eroi. Quattromila anni fa le loro gesta sarebbero state cantate da Omero, oggi sarebbe il soggetto di un videogioco.

giovedì 25 luglio 2013

I grassi padroni di piazza Mercato nero





(Seconda puntata della piccola inchiesta sul mercato nero a Sassari nel 1944).

Dopo la morte di Giuannedda continua l’azione delle forze dell'ordine contro la borsa nera. Il brigadiere Lolli perquisisce “La Mensa del goliardo” in piazza Università. Saltano fuori una botte con 400 litri di vino, due casse piene di scatolette di carne di conserva tipo militare e cinquanta scatolette tipo tedesca, 89 chili di farina bianca contenuti in un sacco di marca tedesca. I titolari del locale sono nei guai, non solo per la borsa nera, ma perché un’ordinanza emanata subito dopo l’8 settembre, imponeva a tutti di denunciare il possesso di materiale appartenuto ai tedeschi e di consegnarlo subito ai comandi militari.

La raffica quasi quotidiana di denunce e ritrovamenti lascia però l’amaro in bocca. La popolazione è stremata dalle rinunce. L’anno era iniziato con i moti del pane guidati dal giovane Enrico Berlinguer e d’estate risulta ancora introvabile l’olio, per non parlare del sapone, delle stoffe e delle scarpe. Il mercato nero restituisce a prezzi esosi quello che potrebbe essere distribuito in modo più economico. Aleggia una spiacevole sensazione, che i manovratori dei traffici rimangano nell’ombra, le ruberie dei disertori nelle campagne rimangano impunite e che la Giustizia colpisca i terminali. Scrive L’Isola, con un tocco di poesia: “Le cosiddette centrali del mercato nero che si sono smascherate e chiuse non sono in realtà che “sorgenti alle quali fanno capo le piccole e medie fontane”.

A uno straniero Sassari si presenterebbe in modo paradossale, con commercianti che hanno i negozi vuoti, che non si lamentano della crisi e – scrive il giornale – “che se ne stanno tranquillamente seduti a leggere il giornale o a chiacchierare con gli amici, proprio come se gli affari andassero a gonfie vele…”. Il quotidiano va oltre e prova a tratteggiare dei ritratti: “Il peggio è che tutti noi, tutti noi cittadini, conosciamo perfettamente quei signori, quasi tutti grassi, ex operai o ex piazzisti o ex uomini d’affari, che costituiscono il direttorio centrale del mercato nero. Sono essi che indossano abiti nuovissimi ed eleganti, che si riservano i palchi nelle sporadiche rappresentazioni a teatro, che furtivamente acquistano qualche uliveto con cauta manovra intestandolo a familiari. Noi li conosciamo tutti costoro, e quando li vediamo contrattare agli angoli delle vie o nei caffè o in piazza d’Italia, ce li additiamo l’uno all’altro. Orbene, contro costoro non c’è nulla da fare?”. Il messaggio è chiaro: le forze dell’ordine puntino ai finanziatori del mercato nero e ricostruiscano l’intera filiera che svuota i locali sulle strade e ingrossa retrobottega e scantinati.

mercoledì 26 giugno 2013

Piazza Mercato nero: Giuannedda e il Brigadiere

Affari in piazza Tola


Solo nel giugno del 1944 nel Sassarese vennero denunciate 262 persone per reati annonari, 782 per borsa nera; 16 finirono in manette. Il fenomeno era talmente rilevante che in Porta Rosello qualcuno si divertì ad attaccare una finta targa toponomastica: “Piazza mercato nero”. La Questura affidò il compito di stroncare i traffici a un esperto, il brigadiere Spano che non faticò a raggiungere dei risultati: all’epoca era normale incorrere in qualche peccatuccio come ritoccare prezzi o vendere merce di nascosto. 

Tanti pesci piccoli e grandi finirono nella rete del brigadiere: in via Brigata Sassari una signora di Tempio venne trovata in possesso di un mezzo maiale di 25 chili, pronto per essere venduto; a casa di un sassarese residente in via San Carlo vennero sequestrati 8 ettolitri di vino, che veniva venduto a 25 lire al litro: valore della merce, 20mila lire. All’emiciclo Garibaldi ci vollero due viaggi di un camion per svuotare un magazzino pieno di ogni ben di dio. Così in viale Trieste, dove l’irruzione in un negozio avviò un’incredibile serie di ritrovamenti a matrioska. Il mercato parallelo si nutriva di ingiustizie. La situazione era talmente insostenibile che una mattina il commissario prefettizio Ignazio Devilla - sindaco di fatto - andò personalmente al mercato delle carni per verificare la presenza di abusi nei prezzi. Il suo intervento fu salutato dall’ovazione della folla.


C’era poi Giuannedda la fruttivendola. La donna, originaria di Bono e titolare di un negozietto in via del Carmine, era abbastanza conosciuta in città. Il suo esercizio non era molto fornito di prodotti, come tutti d’altronde, ma nel retrobottega le cose cambiavano e la merce contrabbandata non veniva venduta a prezzo di favore. Questa signora del mercato nero giocava a nascondino con gli investigatori, riuscendo quasi sempre a farla franca. Venne incastrata per colpa di un bel cesto di meloni. Il brigadiere Spano, che da tempo la teneva sotto controllo, si insospettì per quella cesta. Ogni giorno veniva portata nella bottega, sempre con la stessa frutta. Decise di guardarla da vicino e scoprì che sotto i meloni erano nascosti pezzi di maiale già macellati e pronti a esser venduti al prezzo di 50 o 60 lire al chilo. Giuannedda prese il volo un secondo prima di essere arrestata, ma il suo retrobottega fu chiuso per sempre. Pochi mesi dopo la donna morì improvvisamente, portandosi dietro i segreti del mercato nero sassarese, in una scia di simpatia e rimpianto. (1- continua)

mercoledì 19 giugno 2013

Politici Tarzan nella steppa di Platamona

Dall'archivio del Corriere dell'Isola una strepitosa foto di Salvatore Marras


Per esperienza diretta posso dire che raramente ci si annoia ai sopralluoghi effettuati dai consiglieri comunali. Un po’ perché si esce dal Palazzo (con tutte le implicazioni pratiche e metaforiche del caso), un po’ perché l’atmosfera del pulmino municipale stempera le contrapposizioni politiche e l’aspetto umano prevale sul gioco delle parti. Ecco la storia di un sopralluogo al quale avrei voluto tanto partecipare.

Siamo nell’ottobre del 1950, il sindaco Pieroni procede come un treno verso il coronamento del suo grande sogno, la nascita di Sassari marina. È riuscito in una prima impresa, risparmiare 5 milioni dalla costruzione della strada che collega la Carlo Felice con Platamona. Con quella cifra intende comprare un pezzo di pineta e mettere l’ultimo tassello al progetto. Prima di approvare l’acquisto, i consiglieri comunali chiedono di vedere da vicino la distesa di pini, per votare in piena coscienza. Pochi giorni dopo la visita guidata intorno allo stagno, l’avvocato Attilio Fais della Lista bandiera, in polemica con Pieroni, farà in consiglio comunale uno spassoso resoconto di quel sopralluogo. 

«Noi siamo andati avant’ieri in questa pineta: ci siamo inoltrati in una inestricabile boscaglia, in un ginepraio pieno di spine, sento ancora qualche puntura nel fondo dei pantaloni. Ad un certo momento ci siamo smarriti e ci siamo dovuti chiamare come Tarzan e soltanto le omeriche risate dell'amico assessore professor Marras ci hanno fatto da guida per riunirci al resto della comitiva. Io ho voluto avere la precauzione di accompagnarmi col compagno Polano perché è un conoscitore di steppe ed ho scelto anche la compagnia di questo pittoresco amico cronista seduto al tavolo della stampa che è stato in Africa e in India. Con questi due, che di boscaglie se ne intendono, andrei tranquillamente a caccia della tigre».

Peccato che all'epoca in aula consiliare non ci fossero le telecamere.


Ancora "Foto Marras"

venerdì 7 giugno 2013

«Il Turritania? Come il Colosseo»


1934, piazza Sant'Antonio senza il Turritania ma con un'altra "presenza"


All’Azuni c’era un famoso professore che confermava per cinque anni il voto dato nella primissima interrogazione (nel mio caso un sei e mezzo). Si chiama effetto primacy ed è il peso della prima impressione nel giudizio che formiamo sugli altri. Così è stato per l'Hotel Turritania, il decadente cubo di cemento in fondo a Porta Sant'Antonio: molti sassaresi l’hanno subito guardato storto. Tanto che nel marzo del 1947, a soli tre anni dalla sua parziale elevazione, il babbo dell’opera - l’architetto Vico Mossa - fece un’uscita pubblica per difendere le sorti di quella che all’epoca era un’incompiuta: in città c’era chi chiedeva con vigore l’abbattimento dei due piani realizzati. Il progettista scrisse due fitte pagine per il Corriere dell’isola, spiegando che c’erano poche alternative. Per riassumere il suo punto di vista propongo un immaginario botta e risposta: il fatto che l’opera venne poi completata fa pensare che le argomentazioni di Mossa fecero breccia tra i sassaresi.

Perché si è consentito di costruire un tappo proprio alla fine del Corso?
Il tappo è stato creato a fine Ottocento dalla ferrovia, che ha tagliato in due la strada reale di Porto Torres, provocando la realizzazione di uno scomodo cavalcavia a gomito verso corso Trinità.

Non si poteva lasciare libero lo spazio almeno per salvaguardare il panorama verso il Golfo dell’Asinara?
In realtà non c’era nessun panorama perché il Golfo è visibile solo da pochi punti del Corso; la ferrovia e le brutte case oltre i binari rappresentavano un pessimo fondale. C’era l’esigenza di creare una quinta che chiudesse ordinatamente quello spazio.

Era stata progettata un'altra soluzione?
Il Piano regolatore aveva previsto che un portico girasse intorno alla piazza. Nel mezzo si pensava di realizzare un giardinetto dove collocare la fontana di San Francesco copia di una presente a Milano. Poi il podestà Giacomo Crovetti mi chiese di redigere il progetto per edificare qui la sede dell’Ente comunale di assistenza. Dissi che forse non era la sede migliore per realizzare una struttura a finalità sociale, ma era l’unica grande area libera di proprietà comunale.

Ora si vuole demolire l’edificio poiché l’ente assistenziale non è in grado di completarlo. È d’accordo?
I lavori sono iniziati nell’ottobre del 1942 e sono stati bloccati nel febbraio del 1944. Condivido che la struttura non possa rimanere monca come ora. A meno che non si realizzi il porticato previsto dal piano regolatore, credo sia meglio ultimare l'edificio e dargli un’altra destinazione.

Chi vuole raderlo al suolo sostiene anche che così si ridurrebbe il giro malavitoso che ruota intorno all’area.
In passato qualcuno voleva abbattere il Colosseo con la stessa motivazione: era il ritrovo della malavita romana.

Quindi il tappo deve rimanere.
Per i nostalgici della vecchia strada verso il mare si può costruire al massimo un cavalcavia pedonale prolungando i due vicoli ciechi. Credo che in piazza Sant’Antonio ci siano palazzi molto più indegni di trovarsi all’ingresso della città.




sabato 25 maggio 2013

I sassaresi che si fecero riconoscere dagli americani

In basso a sinistra l'allora sede del comando alleato


Quando sono arrivati dal cielo non hanno trovato Sassari. Quando sono arrivati da terra non hanno trovato i sassaresi. Con gli americani abbiamo giocato a nascondino ma al momento opportuno ci siamo fatti riconoscere. 

Nel 1943 gli alleati provarono tre volte a bombardare la città, ma il maltempo e altri imprevisti li costrinsero a una miracolosa inversione a U. Una volta ho sentito con le mie orecchie un parroco dire che la Madonna aveva voluto più bene ai sassaresi che ai cagliaritani, alla faccia di Sant’Efisio (questo lo aggiungo io). È così anche nella Processione del voto riusciamo a essere campanilisti.

Come ho già raccontato, una volta diventati amici gli americani entrarono a Sassari tra l’indifferenza generale, perché il quotidiano annunciò la data sbagliata e nessuno accorse in strada a salutare i "salvatori". Ma gli uomini di Roosevelt si mostrarono subito generosi. In una città un po’ affamata, gli alleati si facevano in quattro mettendo a disposizione materiale farmaceutico, latte in polvere e materiale di ogni genere. Certo, qualche volta si lasciavano coinvolgere in risse da bar (censurate dalla stampa ma raccolte da chi informava il comando alleato), ma questa disponibilità non fu sempre ricambiata. A mortificare i sassaresi ci pensarono due categorie di guastafeste: i ladruncoli su commissione che spogliavano le automobili a stelle e strisce e gli anziani scrocconi che assillavano gli yankees per ottenere sigarette. Non fatico a immaginare i personaggi.

Il quotidiano L’Isola attaccò i concittadini cafoni con malcelato imbarazzo, smentendo involontariamente il quadretto dipinto mesi prima quando aveva scritto che «fra gli americani e noi esistono innegabili differenze di sangue, di cultura e di civiltà; la nostra civiltà è più raffinata e profonda, la loro più agile, più pratica e più moderna». Ora il giornale dovette rettificare: i sassaresi avevano più senso pratico.

venerdì 17 maggio 2013

Cavalcata sarda, Sassari debutta in società




Con l’entusiasmo dei bambini ammessi al tavolo dei grandi, con l’ansia della prima volta a cena dai suoceri. Sassari fece il suo debutto in società nell’aprile del 1899: a quasi quarant'anni dall’unità d’Italia, il capoluogo si sentì pronto a indossare l’abito buono per presentarsi ai connazionali oltremare. Preparò un bel monumento al padre della patria Vittorio Emanuele II e per inaugurarlo invitò il re Umberto e la regina Margherita, consapevoli che sulla scia dei reali sarebbero arrivati gli unici in grado di consacrare il debutto: i cronisti. Per rendere la visita più spettacolare, i sassaresi rispolverarono una vecchia usanza in voga con i sovrani spagnoli, quella di salutare le autorità con una lunga sfilata di cavalieri e indigeni in costume. E per assistere a questa processione a cavallo, insieme ai giornalisti giunsero anche due eccentrici fratelli francesi che pare facessero muovere le fotografie, Auguste e Louis Lumière. Per l'epoca il massimo della visibilità.

Immaginiamo lo stato d'animo con cui i nostri antenati attesero la pubblicazione del numero della Tribuna illustrata della domenica dedicato all’evento. Non rimasero delusi: sontuosa la copertina a colori e lusinghiera la descrizione della città. I continentali erano rimasti stupiti dal quartiere moderno sorto intorno a piazza d’Italia: «La parte nuova è bellissima, si direbbe di trovarsi in una città ligure o toscana». L’altro lato della medaglia: «Ma vi è la parte vecchia che dovrebbe essere sventrata».

Voto buono anche in condotta: «Sassari è squisitamente ospitale e politicamente educata. Vi è un largo spirito di tolleranza che rende libere e indisturbate tutte le manifestazioni». E poi: «La vita cittadina è abbastanza animata. Vi sono comodi alberghi e caffè, negozi eleganti e ben forniti». Infine, il giudizio sul padrone di casa il sindaco Gaetano Mariotti: «Ingegno versatile, volentieri, fra un discorso sull’arbitrato e una pratica sindacale, ritrae sulla tela una bella testa di donna. È un vero uomo moderno, senza pedanteria, senza odi».

La debuttante aveva passato l’esame. 

Palazzo della Provincia, il letto della regina visto dalla piccola fotografa di casa

lunedì 13 maggio 2013

Alla ricerca della Madonna perduta




Dedicato ai sassaresi che a maggio amano passeggiare verso San Pietro. Forse non tutti sanno che a Sassari la Madonna è chiamata in almeno cinquanta modi diversi. L’ho realizzato leggendo un libriccino scritto nel 1930 da Angelo Piredda, con una minuziosa elencazione di chiese, immagini sacre e simulacri dedicati alla Vergine nella nostra città. Di questo lungo rosario - è il caso di dirlo - mi hanno colpito i titoli e le denominazioni scomparse. E visto che siamo nel mese mariano propongo una caccia alla Madonna perduta, una scusa per passeggiare oltre via delle Croci. In fondo è un classico della devozione, da Noli me tollere alla madonnina spiaggiata a Porto Cervo lo scorso febbraio: nel nostro agro ci sono almeno tre posti nei quali - grazie a un trattore, a bambini che giocano a nascondino o a lavori per condotte - potrebbe riapparire una statuina abbandonata. Per entrare nell’atmosfera proviamo a seguire con la fantasia alcune monache medievali tra sentieri e tratturi nascosti tra i rovi. Ecco dove stanno andando.

Santa Maria di Mascar. Come si intuisce dal nome, si tratta di un monastero di benedettine che tra il 1118 e il 1180 si trovava nella contrada di Mascari nell'omonima vallata. Il complesso dipendeva da San Pietro in Silki e a un certo punto fu guidato da una badessa di nome Teodora. Com’è accaduto ai tanti piccoli villaggi che costellavano l’agro di Sassari, Mascari e il suo monastero vennero abbandonati e inghiottiti dai secoli e dalla vegetazione.

Santa Maria di Taberra. Se ho ben incrociato le fonti, Taberra era una borgata della curatoria di Fluminaria che si trovava nell’attuale Badde Ulumu, nelle vicinanze del viadotto sul Rio Mannu della quattro corsie di Alghero. Piredda racconta che «tristi vicissitudini» costrinsero gli abitanti del villaggio a emigrare verso Sassari. Oggi nella vicina località Zunchini, si trovano testimonianze dei periodi nuragico, romano-imperiale, pisano e genovese: in poche centinaia di metri è possibile osservare nuraghi, strutture murarie, tombe, cisterne e i ruderi della chiesetta di Sant’Antonio di Zunchini. Ma nessuna traccia di monasteri.

Santa Maria di Oriola. Tra l’undicesimo e il dodicesimo secolo a due passi dal Bar Graziella della Buddi Buddi sorgeva probabilmente il villaggio di Oriola. Oggi la zona si chiama Rodda Quadda (ruota di mulino idraulico nascosta) e ospita una deliziosa e dismessa stazione ferroviaria degli anni Trenta. Qui secondo alcuni storici si trovava un monastero vallombrosano, sebbene nei registri dell'ordine monastico non ne sia rimasta testimonianza. 

Buona ricerca.

domenica 5 maggio 2013

Quando il calcio tornò alla Torres



Tra il Mediterraneo di Gabriele Salvatores e la Fuga per la vittoria di John Huston. Nella giornata in cui lo stadio Vanni Sanna celebra il ritorno in paradiso della Torres, rievoco una partita di 68 anni fa ricca di richiami simbolici.
È il 18 febbraio del 1945, la guerra non è ancora finita e nella relativamente tranquilla Sardegna si corre dietro a un pallone per evocare l’atmosfera dei giorni normali. L’Acquedotto ospita quella che L’Isola definisce «Una delle più attraenti contese calcistiche, se non la più attraente, di tutte quelle svoltesi a Sassari, al campo della Torres». Si scontrano due rappresentative - Sardegna contro Forze armate - ricche di campioni. Il tono risente ancora del codice dei cinegiornali Luce: «Bastano i nomi di Sanna, il plastico portiere ozierese, di Serradimigni, Sciascia, Fiori, Atzeni, Gorini etc. Da una parte, e di Ferrari I, Ferrari II, Renica, Salmoiraghi, Martini, Martelli, Golinelli, etc. I biglietti sono in vendita presso il caffè Abbondio». Già allora si parla di «pubblico delle grandi occasioni».
L’organizzazione della partita è «curata nei minimi particolari dai giovani appassionati componenti della sezione calcio della Torres». Vince la squadra delle Forze armate per uno a zero «dinanzi a una cornice di pubblico enorme». La sfida richiama «come ai bei tempi del calcio sassarese e sardo carovane di sportivi da ogni parte della provincia, perché giocata veramente bene con grande accanimento, con perfetta correttezza e con fine tecnica calcistica».
Si badi alla scelta delle parole: aspettando tempi migliori dopo la guerra, anche una partita di calcio diventa l'occasione per esternare le aspettative sulle qualità degli uomini che dovranno ricostruire l’Italia. «Accanimento», «correttezza» e «fine tecnica»: termini che oggi sembrano perfetti per definire quella generazione.

mercoledì 1 maggio 2013

"Quel rifugio è un letamaio"

L'ingresso del rifugio di piazza Castello


Diciamo che la pulizia non è mai stata il punto forte della nostra città. Aggiungo un episodio alla lunga letteratura sull'argomento, considerato che fra pochi giorni sarà visitabile il rifugio antiaereo di via G.A. Sanna in occasione di Monumenti aperti.
Siamo nella seconda metà del 1944, tempo di spending review bellica, la città è lurida ma esistono dei luoghi dove la mancanza di igiene è insopportabile: le gallerie aperte in fretta e furia per ripararsi dalle incursioni aeree. Un lettore scrive al quotidiano L'Isola: “Gli abitanti del Monte Rosello non scendono nel ricovero di via Pietro Micca: non già perché non si curino del pericolo, ma bensì perché a una morte per asfissia preferiscono quella di una bomba. Almeno è più veloce”. Quel rifugio – aggiunge il cronista – è un vero letamaio ed è senza luce. 

Il disagio tocca anche i cunicoli di Cappuccini e via Saffi: finché c'era il regime ogni buco aveva il suo capetto che ne curava l'apertura, la manutenzione e la pulizia. Adesso bande di ragazzini usano gli ingressi come latrine, e i manovali del mercato nero fregano lampadine, lampade accessorie e cavi elettrici, tutta roba che non si trova facilmente nel mercato legale. Il Comune come al solito allarga le braccia: appena avremo due lire disponibili compreremo i lucchetti per i portoni, speriamo di trovare presto qualcuno che si occupi della custodia e della pulizia. E comunque – dicono in municipio – sarebbe un buon inizio andare a fare i bisogni da un'altra parte. 

Suscita polemiche la costruzione di alcuni rifugi. La terra risucchiata per ottenere i cunicoli viene ammassata nelle strade formando collinette in mezzo ali incroci, e poi che bisogno c’è di costruire nuovi ricoveri se dopo l’8 settembre è diminuito il rischio di bombardamenti? Abbiamo i finanziamenti – rispondono le autorità – e ormai dobbiamo spenderli. Allora perché non si utilizzano quei soldi per rimettere in sesto le strade ridotte in condizioni disgraziate? – risponde l’opinione pubblica.

Avviene un episodio emblematico: i residenti della zona di piazza Fiume si lamentano per i lavori di costruzione del tunnel di fronte all'ospedale civile: ma è proprio necessario far scoppiare le mine di notte? La terra trema, nessuno dorme e giù maledizioni contro il Genio civile. Dopo la bomba vera sulla stazione, per Sassari è l’episodio che più si avvicina all’idea di uno spezzonamento notturno.


giovedì 25 aprile 2013

Tre sassaresi liberati



Reduci in piazza del Comune il 25 aprile del 2011 e 2012


Siccome il 25 aprile è la Festa della liberazione, ecco la storia di tre sassaresi liberati al termine della Seconda guerra mondiale. Ho unito in un'unica sequenza sprazzi di interviste raccolte alle fine degli anni Novanta. Le voci sono quelle di Gaetano Angius, Gigi Rizzi e del signor Giovanni, che non volle dirmi il cognome ma mi raccontò una storia bellissima seduti su una panchina in piazza Azuni. Tutti e tre avevano sperimentato il campo di prigionia e una lunga odissea prima di raggiungere Sassari.

«Ci sentivamo come pacchi postali. I russi ci consegnarono agli inglesi. Questi ci passarono agli americani. Era tutto improvvisato. Sembrava che nessuno avesse le idee chiare su cosa fare di noi».

«Attraversando l’Europa avevo visto dolore, macerie e disperazione. Passato il Tirreno e sbarcato al porto di Olbia trovai uno scenario completamente diverso: ero malridotto e allo stremo delle forze, ma il controllore non voleva farmi salire sul treno poiché non potevo acquistare il biglietto. Insistetti, non credevo che qui si fosse così fuori dal mondo da non capire cosa avessi passato. Mi salvò un viaggiatore che si offrì di pagarmi la corsa».

«Giunsi al porto di Cagliari in uno stato pietoso. Avevo la febbre a quaranta, ero sporco e malvestito. Non mi reggevo in piedi. Dopo essere sceso faticosamente dalla scaletta della nave crollai sulla banchina, a peso morto».

«Non avevo niente con me, neanche una camicia. I miei familiari non mi riconobbero subito. Non avevano mie notizie da ormai molto tempo e pensavano che fossi morto».

«Tornato a casa fui preso dalla smania di mangiare. Ero insaziabile. Passavo le giornate ingurgitando cibo. Era un effetto del lungo digiuno forzato».




«Mio padre fu costretto dal medico di famiglia a non assecondare continuamente il mio appetito, perché dopo tanta fame un eccesso di alimentazione avrebbe potuto creare ulteriori danni».

«A casa ormai non mi aspettava più nessuno. Tra la guerra, la prigionia e i ricoveri per la malattia, sono stato lontano da casa per sette lunghi anni. Ho visto tante persone morirmi intorno. Solo nella baracca dove ero prigioniero, su duecento sopravvivemmo in cinquanta: una strage. A Sassari, mi domandai per molto tempo come avessi fatto a tornare vivo. Mi risposi che ero stato soltanto molto fortunato».




domenica 21 aprile 2013

Un'americana a Sassari (L'anno delle Ombre - 5)


Shirley Slade, una recluta delle WASP, da Wikipedia.


Prima del cappello texano di J.R., prima dell'Allegria! di Mike Bongiorno, prima del rock'n'roll di Elvis Presley, Sassari conosce nel 1944 una sbandata collettiva verso un'attrazione a stelle e strisce. Siamo in estate, la guerra prosegue oltremare e dalle nostre parti ci si concentra sui crampi della fame e i sugli asfissianti ritmi del razionamento. Come capita a volte nei tempi di paura e insicurezza ci si aggrappa alle promesse. Di un futuro migliore, certo, ma anche di un piccolo ristoro. Basta assaporare il desiderio di una distrazione per abbassare le difese.

L’illusione arriva avvolta in un corpo esile, l’aria bizzarra e una storia suggestiva da raccontare. Si chiama Johnny E. King e si presenta come un’aviatrice americana figlia di genitori sardi. In realtà si chiama Giovanna, è una ragazzina dell'Oristanese con un marcato accento campidanese. Ma tutte queste cose i sassaresi le scopriranno solo alla fine, quando si risveglieranno come da un miraggio. Un gigantesco abbaglio che porterà a un processo imbarazzante più per le vittime che per la truffatrice. 

L’americana arriva in città all’inizio dell’estate con piglio sbarazzino e simpatico. Recita il suo copione, mostra documenti d’identità falsi, e uno vero ma rubato: un modulo dattiloscritto rilasciato dalla Missione alleata per avere vitto e alloggio come tenente. La giovane si è appropriata anche del cliché del buon americano. Regala caramelle, cioccolati e qualche sigaretta. Promette, dietro un sostanzioso anticipo in denaro, di portare rifornimenti ben più sostanziosi anche di sapone, dentifricio, profumi, caffè, zucchero, vestiario e altri generi introvabili. C’è chi le consegna 7mila lire, chi 4mila, chi 2.500. Un noto commerciante gliene affida 3mila da trasformare in sigarette. In qualche caso l’inganno si fa più odioso e Giovanna raccoglie anche lettere per prigionieri di guerra. L’elenco dei truffati è ben più lungo di quello delle parti lese che avranno il coraggio di presentarsi in tribunale. Lei raccoglie tutto, sorride a dà appuntamento al più presto. 

Il giochino salta perché c’è qualcuno che si insospettisce. E’ la signora Careddu, proprietaria dell’appartamento in via Carlo Alberto dove alloggia l’aviatrice. La donna ha qualche dubbio sull’identità di Johnny e decide di seguirla, e quando vede che non si reca alla Gil dove ha sede il comando alleato e non ha contatti col mondo militare, si rivolge ai carabinieri. La ragazza viene arrestata e improvvisamente tutti riconoscono che quell’accento esotico non è anglosassone, che non è bionda e che nel complesso ha un’aria familiare. Il quotidiano locale sbertuccia qualcuna delle sue vittime. Giovanna viene condannata a due anni di reclusione e 2mila lire di multa. I creduloni vengono condannati alla derisione generale. In tempi di crisi queste vicende tirano su il morale.